Lettere dalla Sicilia (1954-1956)
Questo libro raccoglie quarantatré lettere, mai pubblicate, scritte da Dinu Adamesteanu all’amica
Daphne Margareth Phelps tra il 1954 e il 1956; saranno utilissime a chi vorrà scrivere una completa
biografia sul celebre archeologo o a quanti vorranno, con documenti originali, ripercorrere le tappe di
quella che è stata la più grande impresa archeologica siciliana: gli scavi di Gela e del suo retroterra.
Tratto dal libro/Introduzione
Verso la fine del 1950 Dinu Adamesteanu è invitato a prendere parte agli scavi che si stavano facendo a Siracusa e di lì, ben presto, passa alla direzione degli scavi di Lentini. E’ affascinato dalla potenza di Siracusa ma anche dalla vicinissima Gela che ha studiato nella Storia della Sicilia arcaica dove, il nome della città di Gela, di Ippocrate e Gelone, i suoi due tiranni, insiste correntemente.
Nel 1933-1934 studia la monumentale opera di Paolo Orsi dedicata ai fortunatissimi scavi di Gela e nel marzo del 1951, in occasione della mostra Archeologica di Gela, organizzata dalla Soprintendenza alle Antichità di Agrigento e dall’Associazione Turistica “Pro Gela”, per la prima volta nella sua vita, prende
contatti con il materiale archeologico ritrovato a Gela, che gli appare d’importanza assai più vasta di quanto ha sin’ora immaginato. Se i ritrovamenti lo affascinano, è, però, la collina gelese, chiusa a tenaglia tra il mare e il verde dei campi geloi, a turbarlo profondamente. Il suo ricordo insiste nella mente per mesi e mesi e, per quanto ha studiato accuratamente la storia, l’arte e la topografia gelese, si rende conto che il grande passato di questa città non è stato ancora completamente documentato.
A Maggio del 1951, mentre lavora, a Lentini, alla potente muraglia, alle decorazioni del tempio e all’originale necropoli della collina di San Mauro, il Soprintendente alle antichità di Agrigento dott. Pietro Griffo, gli chiede se vuole occuparsi della Direzione degli scavi di Gela, incarico che Dinu Adamesteanu accetta immediatamente anche perché uno dei suoi maestri, Bernabò Brea, stava lasciando il sito di Siracusa per andare a dirigere un importante scavo archeologico in Grecia, per conto dell’Istituto Italiano di archeologia di Atene.
Ecco come Adamesteanu commenta la vicenda:
” il desiderio di conoscere i tesori di Gela, già in passato studiata da maestri dell’archeologia quali Schubring, Pais, Orsi e Cultrera ma soprattutto la voglia di documentare, con riscontri scientifici, un grande hiatus di quattordici secoli, dal 280 a.C. al 1233 d.C., ovvero sino all’età di Federico II lo Svevo, quando si credeva che la collina fosse stata abbandonata, mi spinse ad accettare questa grande sfida”.
E’ il tempo in cui la colonna dorica di parco delle Rimembranze è da poco rialzata e si lavora alle mura di Capo Soprano che è anche l’oggetto principale di ogni discussione e fantasia tra i residenti del comprensorio: Fortificazione militare o teatro greco? Immaginano che la scoperta di un teatro greco come quello di Siracusa o di Taormina possa sviluppare un’economia turistica di pregio.
L’intera città di Gela e parte del suo retroterra è interessata da una grande attività edilizia: Abitazioni, santuari e necropoli dell’antica città greca sono casualmente scoperti, sempre trafugati e sempre ricoperti per evitare l’intervento delle istituzioni.
Dinu Adamesteanu ricorda che fu necessario formare una squadra di operai specializzati per seguire e controllare tutti i lavori pubblici. Poco tempo dopo, la Soprintendenza alle Antichità di Caltanissetta e Agrigento chiama un giovane e promettente archeologo della Scuola di Specializzazione di Roma, Piero Orlandini che, nel settembre del 1952 raggiunse Gela.
Ecco come Piero Orlandini descrive il suo arrivo:
“Scesi dal treno in abito cittadino, elegante, con un grazioso papillon. Mi venne incontro uno spilungone trasandato e sbracato: Dinu Adamesteanu. Ci guardammo e ci venne da ridere… Da quel momento iniziò un lavoro comune di scavi archeologici, pubblicazioni e allestimento del nuovo Museo di Gela che durò sei anni, durante i quali Adamesteanu condusse infaticabilmente una serie di scavi e ricerche nei centri antichi del retroterra di Gela (Manfria, Butera, Monte Bubbonia, Monte Desusino, Gibil, Gabib, Vassallaggi, Sofiana), scavi rapidamente pubblicati nel periodico dell’Accademia Nazionale dei Lincei, a dimostrazione della rapida e progressiva ellenizzazione della Sicilia centro-meridionale per opera di Gela tra il VII e il V sec. a.C. e della conseguente convivenza e fusione tra Greci e Siculi nei vari centri del retroterra gelese.
Durante questi anni Adamesteanu faceva praticamente parte della mia famiglia; per i miei figli era semplicemente lo “zio Dinu”. Tra i due, inizia una felice e fruttuosa collaborazione che dà nuovo impulso agli scavi, alle ricerche del retroterra gelese e all’esplorazione sistematica dei centri indigeni nel territorio a Nord di Gela, documentando le progressive fasi di contatto tra le culture indigene e la nuova colonia greca rodio-
cretese avvenute dal VII secolo a.C. in poi.
I due archeologi, “Les deus de Gela” come sono chiamati da George Vallet nel 1980, portano a termine la ricerca archeologica di Gela e del suo retroterra che rimane a tutt’oggi esemplare e fondamentale ed è oggetto di una monumentale documentazione scientifica.
I Media dell’epoca si occuparono spesso degli scavi di Gela ed è così che Daphne Margareth Phelps, una cittadina britannica residente a Taormina, viene a saperlo; nel maggio del 1953, si reca a Gela, assieme all’amica Joan Stiggins, per conoscere nel dettaglio quella che sarà poi definita la più importante impresa archeologica siciliana.
Daphne Phelps, nel suo libro Una Casa in Sicilia, racconta che fino a quel momento aveva avuto per l’archeologia solo un interesse marginale dovuto al fatto (importantissimo) che era parente di Arthur J. Evans, il celebre scopritore del palazzo di Knosso, a Creta.
L’amicizia tra Dinu Adamesteanu e Daphne Phelps dura tutta la vita con una fitta corrispondenza certa dal 1953 al 1959, con la presenza di Daphne Phelps negli scavi documentata sino al 1958 e di Dinu Adamesteanu a Casa Cuseni, la residenza di Daphne Phelps, per molti anni.
Nel 1959 Dinu Adamesteanu ritorna a Roma per ricoprire l’incarico di primo Direttore dell’Aerofototeca Nazionale lasciando definitivamente la Sicilia, cosa non possibile per Daphne Phelps che deve, invece, custodire l’immenso patrimonio che ha ereditato, Casa Cuseni, una delle proprietà immobiliari più importanti dell’Isola.
Altri documenti attestano corrispondenza tra Daphne Phelps e Piero Orlandini nel dicembre del 1959. Interessantissime sono le lettere che Daphne invia al Presidente del Senato della Repubblica per difendere i diritti della Direzione degli scavi di Gela (vedi appendice) datate marzo e dicembre 1958.
Di questa lunga amicizia e di questa fitta corrispondenza ci rimane un gruppo di quarantatré lettere relative agli anni 1954 al 1956, alcune fotografie, due lettere del Senato della Repubblica per Daphne Phelps (1958) ed una lettera di Pardo Vincenzo, del Museo di Gela (1959). E’ nostra speranza rintracciare tutto il corpus dell’epistolario.
Dinu Adamesteanu e Piero Orlandini sono definiti “pionieri dell’archeologia siciliana” e credo che mai sostantivo sia stato usato in maniera più appropriata. Queste lettere, infatti, documentano le difficoltà economiche e logistiche che Dinu Adamesteanu deve affrontare e che conferma quanto già, in precedenza, nel 1957, il giornalista vicentino Guido Piovene documenta, nel suo libro Viaggio In Italia (Arnaldo Mondadori).
Il giornalista restituisce la figura dello studioso (Dinu Adamesteanu) mentre riporta alla luce la fortificazione militare di Capo Soprano, “un enorme paravento perduto tra le dune, nello spazio deserto, solenne e oggi astratto da ogni realtà, una costruzione chimerica”, quello che Adamesteanu definì “il più bel muro trasmessoci dall'antichità”.
Di questo momento abbiamo una foto inedita di Dinu Adamesteanu, a piedi nudi, sotto il muro; la foto risale ai giorni immediatamente successivi al dissotterramento della fortificazione dalle dune sabbiose, prima dell’eccezionale intervento di restauro e conservazione proposto dall’architetto Franco Minissi.
Dinu Adamesteanu, ricorda ancora Piovene, “ è un archeologo romeno divenuto italiano, una popolarissima figura in tutta la zona, ribattezzato Don Bastiano per semplificarne il nome; egli è tra i pochi archeologi avventurosi che rimangono in campo. Un misto d'istinto e di calcolo fa sì che, uscendo all'aria aperta in un terreno tutto eguale, egli individua il metro esatto in cui bisogna affondare il piccone ”, ed è esattamente cosi! in una lettera dell’agosto del 1954 Dinu Adamesteanu scrive: “ desidero dare il primo colpo di piccone direttamente sulle scale del Foro Romano di Philosophiana e non vorrei sbagliare d’un metro e d’un centimetro. Una di queste notti dovrò partire per Sofiana e vedere il sole sorgente e vedere bene bene il terreno perché tutto mia sia facile al momento dell’inizio ”.
Piovene, ricorda ancora che il dott. Adamesteanu “cominciando dal maggio, viveva sui luoghi degli scavi, spesso lontani e disagevoli, al sole e alla pioggia, dormendo per terra e cielo scoperto, portando in tasca un pane, una cipolla, un pezzo di cioccolata, tutt'al più una scatoletta di carne. Scavare è l'unica sua cura. Solo recentemente, dopo anni di bivacco sulla proda dei fossi, gli hanno regalato una tenda. Prima del dono un contadino, impietosito di vederlo all'aperto, gli cedette il casotto del maiale, sommariamente ripulito e imbiancato, per ripararvisi la notte. Ma il maiale, furente di essere stato espulso, riuscì un giorno a rientrarvi mentre don Bastiano era assente, e per vendetta fece a brani vestiti e biancheria, oltre ad ingurgitare sapone, pasta dentifricia, spazzolino da denti. A Piazza Armerina, dove don Bastiano arrivò una mattina con gli abiti a brandelli, si fece incetta d'indumenti a prestito per rivestirlo ”.
Guido Piovene, ha la fortuna di intervistare Adamesteanu nel 1956, ricorda che l’archeologo disse “Non si sarebbero mai fatti nella Grecia contemporanea templi colossali come a Selinunte ed Agrigento; né si sarebbero ammassati, come è avvenuto ad Agrigento, tanti templi tutti grandiosi in una valle sola. Né si trovano in Grecia, come qui, cinquanta vasi tutti in una sola tomba. Vi era già allora una tendenza sontuosa, e quasi megalomane, nella Sicilia; quella che, dopo il dominio spagnolo, si chiamò spagnolesca ”.
Nelle lettere che di seguito presentiamo, il fascino della scoperta archeologica, la difficile vita nei siti archeologici di Gela e del suo retroterra, vengono investigate nella loro immediatezza, senza i filtri del rigore scientifico necessario nelle pubblicazioni accademiche.
Le lettere racchiudono confidenze private del grande archeologo alla scrittrice Daphne Phelps, quindi sono impressioni immediate, dirette e pertanto vere, sincere ma anche divertenti come quando scrive da Philosophiana: “lo scavo va benissimo e le sorprese sono già venute, ATTINIC BPCBYTEPOC con un bel calendario ebraico e perciò mi sono trovato di fronte ad un rabbino che aveva la sua sinagoga qui a Philosophiana verso il IV secolo d.C. E’ la prima iscrizione che io trovo in Sicilia dopo quasi quattro anni di lavoro… Un gruppo di 3 operai andrà a scavare la tomba del prete ebreo che non volevo disturbare ieri, Sabato, ricordandomi che gli ebrei non lavorano e non vogliono essere disturbati di Sabato”.
Da Monte Desusino sarà, invece, gli occhi di Daphne:
“Carissima ΔΑΦΝΗ (Daphne) so benissimo che non potrai mai arrivare sulla montagna Desusino ed è perciò che ti descrivo forma, uomini e antichità … Qui, sopra questa enorme piattaforma, verso il 500 a. C. i Greci, probabilmente di Gela, fondarono una città di cui nulla si è saputo fin a quando, tempo addietro, non scoprii qualche traccia di muro, molta ceramica e blocchi ben squadrati buttati sul terreno. … il tempio appare ora bello ed il materiale rinvenuto è veramente bello. Da molto tempo non ho trovato una moneta greca così bella e così rara come quella di Milingiana: è una moneta di Lipari arrivata da queste parti nel primo V secolo a.C.. ”
Altre lettere chiariscono aspetti meno noti, come il sofferto concorso a Soprintendente nel 1956, ostacolato dal Dott. Pietro Griffo e sostenuto, invece, dal prof. Bernabò Brea: “Ho l’impressione netta che egli (Dott. Pietro Griffo) non vuole che si faccia altro o meglio dire che io non faccia altri scavi fuori e cogliere così altri elogi. Perché proprio ora ho avuto, e proprio attraverso la Soprintendenza di Agrigento, la nota con cui mi si permette di entrare nei concorsi di alto grado, ciò che a lui non gli è stato concesso”.
Altre, confermano la sua illuminata intuizione sui rapporti tra Greci e indigeni: “… il mondo in 2500 - 2700 anni non cambia radicalmente, per certi riguardi … grande è in me il desiderio di conoscere bene e a fondo il problema di queste civiltà: greca e sicula, il loro amalgamarsi e la finale trionfante unità di pensiero.”
Non potevano però mancare i contrasti con la mala vita locale documentati in diverse lettere: “lo stesso giorno sporgevo denuncia con precisi dati di fatto … Avevo il numero esatto delle monete e delle circostanze, delle persone implicate (in parte, perché si aggirano a 50 tutte) e così la Questura poteva procedere, assieme ai Carabinieri, alla grande battuta. Dal giorno 12 finora io non so quanto ho dormito e dove, perché tutti gli interrogatori dovevano passare anche attraverso le mie mani. E sai che Piero è ancora in vacanza e che Griffo è venuto un solo momento a Gela per rimproverarmi non per dirmi una buona parola: sono rimasto solo con Commissario dr. Savoia, senza alcun appoggio.
Anche quando tutte le persone implicate erano cadute nella maglia di ferro nostra, nessuna è venuta a portare spontaneamente il gruzzolo di monete; tutto è stato ritrovato con minutissimi sequestri e perquisizioni, dopo estenuanti interrogatori. Perciò la colpa è grossa di tutte queste persone colpevoli di aver sottratto allo Stato il suo bene e di non averlo depositato subito”.
Le lettere indagano anche i difficili rapporti amministrativi con la Cassa del Mezzogiorno e con il Ministero della Pubblica Istruzione che doveva finanziare gli scavi nelle provincie di Agrigento e Caltanissetta, la sua condizione, difficile, di apolide, i suoi studi e le sue intuizioni sulla villa del Casale di Piazza Armerina, ma anche altri elementi che nulla aggiungono alla statura dell'archeologo e che invece rientrano tra le personali vicende private; vi preghiamo di non tenerne conto.
Dinu Adamesteanu restituisce ai siciliani di quelle zone l'amore per la loro terra, ridando l’orgoglio di appartenere a un’antica civiltà. I gelesi, dal canto capiscono l’importanza dell’impresa e sono orgogliosi di farne parte; in una lettera l’archeologo racconta: “ Ho la gioia di vedere spesi 60 milioni ma con risultati tangibili e con prospettive di alto valore morale per tutta una povera borgata ch’è stata sempre Gela ”, e ancora, in una lettera successiva, “ho l’impressione che con questa ultima città potrò chiudere le mie ricerche nel retroterra dell’antica Gela e di Agrigento. E credo che una simile ricerca e catena di scavi non si sia mai fatta finora in Sicilia o in Italia”.
Le lettere, ordinate cronologicamente e indicizzate, con le relative note, saranno senz’altro utili a quanti vorranno preparare una biografia completa su Dinu Adamesteanu o sugli scavi di Gela e del suo importante retroterra.
Con questo proposito le consegno agli studiosi.
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